L’art. 27 della Costituzione Italiana recita:
“La responsabilità penale è personale. […]
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
Come Sacerdote che svolge la sua opera quotidiana nel Carcere di Sollicciano a Firenze, sono costantemente impegnato a dare speranza e lottare per i Diritti dei detenuti e ho rivolto la mia richiesta di aiuto anche al nostro amatissimo Papa Francesco che con la Sua sensibilità ci è vicino.
Il nostro Paese avvalora, riconoscendolo nella propria Costituzione, il Diritto alla rieducazione che la pena detentiva deve avere.
Questo dunque il principio che ispira la nostra riflessione e questo il principio che dovrebbe muovere le regolamentazioni penitenziarie a salvaguardia dell’interesse collettivo nel rispetto della dignità del singolo.
Cosa rientra nella parola dignità parlando di detenuti? Tante le considerazioni che emergono e tanti i temi che si potrebbero affrontare. Ad esempio è argomento di numerose discussioni, che non hanno però mai avuto seguito con azioni concrete, la riflessione sull’importanza di regolamentare il diritto all’affettività in carcere.
Tale diritto è riconosciuto e attuato in diversi Paesi europei ed extraeuropei, ad esempio Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, Francia, Croazia, Albania, Stati Uniti, ed alcuni stati dell’America Latina, in Italia siamo fermi ad enunciazioni di principio rimaste inattuate.
E’ evidente, dunque, come la comunità internazionale si sia interrogata sul tema fornendo risposte in linea con il percorso che si ritiene essere più funzionale alla rieducazione, mentre l’Italia, paese cattolico per eccellenza, che porta con sé anche uno storico valore cristiano, non è riuscita ad esprimersi su aspetti così importanti, complessi e delicati per l’equilibrio non solo del singolo detenuto ma anche per gli aspetti sociali a cui egli è collegato.
Le regole che si impongono vanno rispettate perché chi non le rispetta paga ma le regole si costruiscono in base a principi ispiratori che devono esser rispettati a pena di nullità del risultato.
Ora, se il nostro ordinamento penitenziario individua “nel rapporto con la famiglia uno degli elementi essenziali per il trattamento rieducativo”, come si giustifica la negazione di interazioni affettive?
Se accettiamo che sia possibile rieducare l’uomo a comportamenti socialmente riconosciuti come positivi e quindi crediamo che attraverso un corretto percorso di riabilitazione possiamo generare nuove personalità che non costituiranno più pericolo per il resto della comunità, dobbiamo allora muoverci verso il riconoscere a quell’uomo forme di contatto che lo aiutino a mantenere vivo il desiderio di una nuova opportunità.
Per primi noi Cristiani dobbiamo imparare il perdono.
Per primi noi Fortunati, appartenenti alla buona società civile dobbiamo riconoscere la fragilità dell’uomo e predisporre la nuova strada che dovrà seguire chi si è perso con la consapevolezza che le nostre azioni e le nostre leggi sono quelle che permetteranno o meno la nascita di un uomo o una donna nuovi, sanati del passato e rafforzati dalla pena che hanno espiato.
Per generare un uomo nuovo, occorre partorire idee e regolamenti che lo aiutino a voler essere migliore.
Tante discussioni sono state avviate sul tema: ho letto interviste a molteplici opinionisti, ho studiato le proposte degli esperti del settore, ho pianto sulle tante lettere accalorate dei detenuti con cui condivido ogni giorno istanti di vita, e ora grido il mio appello a chi ha il dovere di ascoltare.
Non è una preghiera, non è una richiesta del singolo, non è una partita giocata dentro le mura ma è la vittoria che la società deve pretendere perché possa permettersi di credere che esiste il Cambiamento.
Se il carcere è un contenitore, quando lo apriamo e ne esce il contenuto, questo sarà il frutto della modalità con cui lo abbiamo conservato, curato, seguito.
Da emozioni positive nascono gesti buoni e la repressione senza scopo è fine a se stessa.
Dobbiamo rieducare i nostri detenuti affinché le sbarre che dividono la loro vita da quella degli altri gli ricordino costantemente il perché siano lì, ma contemporaneamente permettere loro di sentirsi vivi e di credere che un futuro diverso li attende.
Aiutiamo chi ha sbagliato ad assumersi la responsabilità di mettersi di nuovo in gioco, non tranciando quella fiducia nella giustizia e non demolendo i recettori di emozioni che solo attraverso il mantenimento della sfera affettiva possono continuare a pulsare.
Il Carcere non deve essere morte dell’anima, ma riconversione e speranza.