Riabilitazione Carceraria: iniziamo dal “carcere a cielo aperto” del “prima” e del “dopo” e poi…

Carcere Rumeno_b

Si fa, più o meno da sempre, un gran vociare di amnistia, di indulto, di condono, di grazia, e come sempre se ne vocifera di più quando la “situazione carceraria” ha raggiunto l’apice della nefandezza; ovvero, dicono i vociferanti, quando le condizioni carcerarie diventano insostenibili.

 Per insostenibile intendono generalmente quando il numero dei carcerati è talmente alto che le strutture carcerarie non riescono ad “accoglierlo”. In concreto quando si verifica il “sovraffollamento”, vale a dire che nei sette metri quadrati di cella che dovrebbe, per legge, avere a disposizione un carcerato convivono, o cercano di farlo, dai quattro ai sei carcerati, compresi i letti a castello che già occupano da soli quattro metri quadrati di pavimento. Nei tre rimanenti dovrebbero starci sei persone. Se tutte e sei contemporaneamente volessero stare in piedi, e non sdraiati sulla branda non potrebbero senza stabilire dei turni.

 Immaginiamo cosa succederebbe se oltre a desiderare di stare in piedi, quelle persone volessero fare qualunque tipo di attività o solo di movimento. Non parliamo di docce, di cessi in cella, di violenza, di droga, di crisi di astinenza, di malattie, di suicidi, di omicidi, di insetti, di topi ecc, ossia tutto il corollario di “degrado” senza soluzione che circonda la persona carcerata perchè per tutto ciò non basterebbe la più scatenata immaginazione.

 Nel gran vocio intorno alla condizione carceraria si accenna anche alla “riabilitazione” del carcerato, ossia alla regola base del carcere che dovrebbe interessare il condannato e che dovrebbe condurlo alla reintegrazione nella stima sociale perduta in seguito al reato da lui commesso e da cui la sua condanna.

 Ancorché non voler polemizzare sul fatto che un terzo dei circa settantamila detenuti, perché drogati, perché stranieri, perché difficoltà procedurali ecc…è in carcere in attesa di giudizio, quindi non condannati; ancorché non voler polemizzare che ogni reato è conseguenza di un disadattamento sociale, ambientale, culturale, economico, materiale e spirituale, per cui è la società nel suo complesso la prima responsabile del comportamento dei suoi singoli soggetti; ancorché voler prendere per buona fede le intenzioni di chi vocifera di riabilitazione, ci è difficile credere che si possa riabilitare non importa chi, immergendolo in una soluzione di disperazione psicofisica, di repressione e schiacciamento dei più semplici sentimenti umani, privandolo di aria, di igiene, di cure, degli affetti, dei sensi di sicurezza, di tutte quelle necessità che nella nostra “democrazia” addirittura pretendono di assurgere a diritti inalienabili della persona umana.


Che tipo di riabilitazione si potrebbe verificare stanti le condizioni di aberrazione in cui vivono i condannati?

Se il sistema sembra non curarsi delle vittime che genera, come potrebbe dunque recuperarle?

Secondo quali principi, con quali metodi, a quale scopo se la società “fuori” assomiglia sempre di più ad un carcere a cielo aperto?

 Non ci sono soluzioni facili ne scorciatoie, tantomeno soluzioni momentanee, la dura realtà è che bisognerebbe produrre riabilitazione nel carcere a cielo aperto, poi si potrebbe cominciare anche con quello a cielo chiuso. Il vociferare intorno a questa necessità assomiglia sempre di più a uno sterile fastidioso rumore.

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